Sono varie le maniere di compiere questi due doveri: chiedere, cioè, qualcosa a Dio e ringraziarlo, maniere che sono una più alta e perfetta dell’altra. Perché, dunque, il popolo fedele non solo preghi, ma adempia anche nella maniera migliore all’obbligo dell’orazione, i Pastori esporranno la maniera di pregare più alta e perfetta, e l’esorteranno ad essa con quanta maggiore diligenza potranno. Ma qual è la forma di preghiera migliore e più alta di tutte? Certo quella degli uomini pii e giusti che, sorretti dalla fede più viva, per taluni gradi di santa orazione mentale, giungono al punto di contemplare l’infinita potenza di Dio, e la Sua immensa benignità e sapienza. Qui raggiungono anche quella sicurissima speranza di ottenere tutto quello che chiedono nel presente e anche quella serie di ineffabili beni che Dio promise di elargire a quelli che implorano piamente e con tutto l’animo l’aiuto divino. L’anima, quasi come trasportata in cielo da queste due ali, con ardente desiderio giunge fino a Dio al quale tributa ringraziamenti e lodi senza fine, perché da Lui ha avuto sommi benefici; quindi, con particolare amore e venerazione, espone, senza esitare, come figlio unico al carissimo padre, ciò di cui ha bisogno. Questa maniera di pregare e di manifestare con la parola i propri sentimenti è descritta dalle sacre Scritture. Dice infatti il Profeta: «Effondo la mia orazione al tuo cospetto, e innanzi a te depongo la mia afflizione» (Ps. 141, 3). Questa espressione significa che, chi viene a pregare, nulla tace, nulla nasconde, ma tutto svela, fiduciosamente rifugiandosi nel grembo di Dio, dilettissimo padre. A ciò ci esorta la divina Scrittura con le parole: «Aprite alla sua presenza il vostro cuore» (Ps. 41, 9); «Getta nel Signore il tuo affanno» (Ps. 54, 23). A tale maniera di pregare allude sant’Agostino, allorché dice nell’Enchiridion, che, quanto la fede crede, la speranza e la carità lo trasformano in preghiera.
• Altra categoria è di quelli che, oppressi da mortali peccati, si sforzano, tuttavia, con quella fede che si dice morta, di innalzarsi e salire a Dio; ma per le forze stremate e la gran debolezza della fede, non possono risollevarsi da terra. Tuttavia, riconoscendo i loro peccati, e tormentati da rimorso e dolore per averli commessi, umilmente e dimessamente, facendo penitenza, dall’abisso della loro abiezione implorano da Dio perdono delle colpe e pace. La preghiera di costoro non è rigettata da Dio, ma ascoltata ed accolta, perché Dio misericordioso invita tali uomini con la massima liberalità: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, egli dice, ed io vi ristorerò» (Mt. 11, 28). Del loro numero fu appunto quel pubblicano che, pur non osando alzare gli occhi al cielo, usci, tuttavia, dal tempio giustificato a differenza del fariseo (Lc. 18, 10).
• C’è pure la categoria di quelli che non hanno ancora avuto la luce della fede, ma, avendo la divina benignità acceso il loro naturale lume intellettuale, sono ardentemente spinti allo studio e al desiderio della verità, e chiedono di essere in essa ammaestrati con fervidissime preghiere. Quanto a costoro, se rimangono nella loro intenzione, il loro desiderio non viene respinto dalla clemenza di Dio. E lo vediamo dall’esempio del centurione Cornelio (Atti 10). A nessuno, infatti, che chieda con animo sincero, sono chiuse le porte della divina benignità.
• Ultima categoria è quella di coloro, che non solo non si pentono dei loro delitti e delle loro colpe, ma accumulano colpa su colpa; eppure non si vergognano di chiedere spesso a Dio perdono dei peccati nei quali vogliono perseverare. Quelli che si trovano in tale condizione non dovrebbero chiedere neppure agli uomini di essere perdonati. La loro orazione non è ascoltata da Dio, come sta scritto di Antioco: «Pregava, questo malvagio, il Signore da cui non avrebbe ottenuto misericordia» (2 Maccabei). Perciò bisogna esortare grandemente chi si trova in questa misera condizione a rivolgersi veramente e sinceramente a Dio, deponendo la volontà di peccare.