Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. AIT DOMINUS?, parte 6. Iddio premia talvolta in questa vita la pudicizia e l’onestà di costumi anche con una decorosità fisica, con una specie di bellezza virginea che sembra voglia far risaltare la bellezza morale. Degnissima e consolante tesi, che si era proposto di illustrare un oratore parlando una volta su Giuseppe ebreo. Ma purtroppo portò a prova, di così bella tesi, il passo che difatti si riferisce a Giuseppe ebreo: Filius accrescens Joseph, filius accrescens et decorus aspectu: filiae discurrerunt super murum (Genesi 49, 22). La prima parte era ovvia: Giuseppe, casto ed onesto, era anche un bel ragazzo. La seconda parte veniva spiegata con una piccola escursione nell’erudizione storica: le ragazze egiziane (le filiae) ammiravano tanto la decorosa venustà di quel casto giovane straniero, che correvano sulle mura delle loro case per vederlo passare. (Impossibile che siano venute in mente a qualcuno spiegazioni simili? Tanto possibile, che all’occorrenza potrei citare nome dell’oratore, epoca, città, luogo preciso del discorso, e naturalmente anche i testimoni!). Non disturbiamo san Girolamo, che impiegherebbe forse i termini del suo vocabolario non eccessivamente mellifluo: invitiamo piuttosto il cordiale sant’Agostino ad avvertire il nostro oratore che questo passo contiene una terminologia ed un colorito spiccatamente semitici. Giacobbe morente benedice uno per uno i suoi figli, ed arrivato al prediletto Giuseppe, lo paragona a rigoglioso albero fruttifero, piantato presso una fonte e recinto a protezione da un muro. Ecco il testo limpidissimo: Arbusto di fruttifera [pianta] è Giuseppe, arbusto di fruttifera [pianta] presso una fonte: le sue rame s’inerpicarono oltre il muro. E le ragazze egiziane che correvano sulle mura, dove sono andate a finire ? Ce l’ha già detto sant’Agostino: ... spesso si traducono non solo singole parole, ma anche frasi che nell’uso della lingua latina assolutamente ... non possono passare. Molte biografie di santi stampate, molti panegirici di santi recitati, terminano innalzandosi col pensiero a Dio, fonte di ogni santità, e citando poi il passo del Salmo 67 (ebr. 68), 36, che dice: Mirabili s Deus in sanctis suis. Se si pretende, con questa citazione addotta in quelle finali, di dare il senso letterale di quel passo, siamo fuor di strada: anche limitandoci al testo latino, quel sanctis può essere sì un ablativo maschile «(uomini) santi», ma può essere anche un ablativo neutro «(cose) sante»; se poi, seguendo il consiglio di sant’Agostino, andiamo a riscontrare il testo originale, vi troviamo proprio questo secondo significato, contrario allo scopo della citazione, cioè «santuario». In altre parole, il salmista allude al tempio di Gerusalemme, o ai precedenti santuari dell’Arca, da cui Dio incuteva timore ai nemici del popolo ebraico. È da notare, infatti, che anche quel mirabilis non esprime esattamente il concetto del testo ebraico: il quale ha «temibile», «terribile». Si traduca perciò: Terribile è Dio nel suo santuario (o nei suoi santuari). Lo stesso scambio fra maschile e neutro, e proprio nella stessa parola «santi», è molto frequente anche a proposito del passo di Sapienza, 10, 10: Dedit illi scientiam sanctorum. Questa scientia sanctorum sarebbe la scienza dei santi, cioè l’illuminazione della mente che Dio concede ai santi. Anche qui quel sanctorum è neutro, scienza di «(cose) sante». L’originale greco ha esso pure [una frase equivoca]; ma il contesto mostra che l’autore sta parlando di Giacobbe, e che con quella frase «scienza di cose sante» allude alla sua celebre visione della scala misteriosa ove gli angeli salivano e scendevano. Queste sono le «cose sante» di cui ebbe «scienza» Giacobbe; di una «scienza (propria agli uomini) santi» qui il testo non parla. Un passo del Nuovo Testamento. Pure questa è una frase rimasta strettamente semitica, anche attraverso il testo greco e la traduzione latina; e poiché si dimentica, o non si sa, che è una costruzione semitica, la si interpreta come se fosse una costruzione latina: di qui lo sbaglio. Dio volge a bene un fiero attacco mosso contro la Chiesa dai nemici di essa: ovvero, una persona viene involontariamente beneficata dai suoi avversarii, che avevano invece tramato del male contro di essa; ebbene, si citerà la frase, Salutem ex inimicis nostris (Luca i, 71), come se significasse «salvezza [procurata] dai nostri nemici», in quanto che le loro trame producono inaspettatamente un bene a noi. Eppure, per respingere questa interpretazione, basterebbe fare attenzione alle parole che seguono immediatamente, et de manu omnium qui oderunt nos; nel latino vi sono due particelle differenti, ex e de, ma nel greco è la stessa, ẻx: il che mostra che ambedue sono dipendenti nello stesso senso da salutem. Il significato dunque è che Dio ha procurato al suo popolo uno scampo dai nostri nemici e dalla mano di tutti i nostri odiatori. In ebraico l’idea di «scampo», o «salvezza», è ordinariamente collegata col suo complemento (nemici, pericoli, ecc.) per mezzo della preposizione min, «ex», «de». E questa preposizione min ha in ebraico anche altri usi: ad esempio, serve per il comparativo. Noi diciamo «Tizio è dotto più di Caio»; gli Ebrei dicevano «Tizio è dotto da (min) Caio». Avendo presente questa regola grammaticale, si spiega facilmente il passo in cui il salmista, trattando dell’omniscienza di Dio, esclama rivolto a Lui: Mirabilis facta est scientia tua ex me (Salmo 138 [ebr. 139], 6); viene cioè a dire che la scienza divina è sublime più di (min) lui, ed egli non riesce a scrutarla. Non era di questa opinione quell’oratore che preferiva scorgere nel passo in questione la scienza dell’amor divino, diffusa mirabilmente nel mondo da ogni zelatore (ex me) della devozione al Cuore di Gesù. ...