Occorrono spessissimo nella Vulgata i sostantivi spiritus, anima, angelus, infernus (o inferus); ebbene, verranno tradotti uniformemente con spirito, anima, angelo e inferno. Pessimo sistema, il quale farà sì che la suaccennata trappola scatti almeno 80 volte su 100 ed accalappi l’incauto traduttore. Infatti spiritus, anima, angelus e infernus, spessissimo non significano né spirito, né anima, né angelo, né inferno, nel senso nostro odierno. E perché? Il perché ve lo spiega, con ogni esattezza e chiarezza, sant’Agostino (badate che non è mica un pretenzioso saputello moderno, è proprio lui, il Vescovo d’Ippona), il quale parlando dei vari traduttori della Bibbia ai suoi tempi così si esprime: «Chi di costoro abbia seguito il vero, se non si leggono gli esemplari della lingua precedente, resta cosa incerta;... e, quale sia il concetto in se stesso, che traduttori diversi si sforzano di riprodurre ciascuno a suo modo e maniera, non risulta, se non lo si veda in quella lingua da cui essi traducono... Giacché, spesso si traducono non solo singole parole, ma anche frasi che nell’uso della lingua latina assolutamente... non possono passare». (Doctr. christ. II,12-13). Ecco dunque che, a sentire sant’Agostino, se volete ben capire la Vulgata, non solo nelle sue frasi ma anche nelle sue parole, dovrete spessissimo ricorrere agli esemplari della lingua precedente, cioè all’ebraico o greco secondo i casi. È consolante, pertanto, vedere che l’autorità eccezionale dell’amico di san Girolamo, meno esperto di lui nella Bibbia, ma non meno di lui ricercatore amoroso del senso di essa e più di lui costruttivo teologo, confermi direttamente quanto dicevamo poco sopra, circa le numerose tracce di semitico facilmente reperibili nella Vulgata. Applicando ora questo criterio ai vocaboli in questione, ecco che cosa troviamo. Spiritus della Vulgata traduce per lo più l’ebraico ruah, il quale può significare, sì, il nostro spirito, ma anche i nostri vento, soffio, sbuffo, stato d’animo, principio vitale, ecc., che debbono evidentemente esser determinati volta per volta in armonia col contesto; chi non bada a ciò corre rischio di tradurre con spirito, intendendo forse anche uno spirito celestiale e perfino lo Spirito Santo, passi che parlano del vento meteorologico, del soffio vitale in un corpo animale, ecc. - Qualcosa di simile avviene con anima, che nella Vulgata traduce ordinariamente l’ebraico nephesh; questo vocabolo, oltre al nostro anima, può significare anche alito, profumo, vita, principio vitale, organismo vitale, persona, ecc.: quante inesattezze, dunque, anzi quante vere falsità commetterà chi lo traduce o interpreta sempre col nostro odierno anima, specialmente se lo restringe al senso tipicamente ascetico di [salvare la propria, pensare alla propria] anima? - Quanto ad angelus, esso traduce ordinariamente l’ebraico mal’akh; ed è una regolare traduzione etimologica, giacché il vocabolo viene dalla radice semitica «inviare», «spedire » [specialmente un nunzio], e quindi [...] significa inviato, nunzio. Ma questo inviato non è detto che debba essere sempre uno spirito celestiale, ossia il nostro angelo: può anche essere, e si trova di fatti usato in questi sensi dalla Bibbia, un uomo qualunque inviato da un re, un profeta inviato da Dio, un sacerdote ecc.: tutte persone in carne e ossa, e non spiriti celestiali. - Anche infernus (o inferus, al plurale) è impiegato nella Vulgata nel suo senso etimologico, la parte bassa, l’inferiore [del cosmo], come ancora fa la Chiesa nel Credo, «descendit ad inferos», e in italiano discese agli inferi [o Limbo dei Padri o Seno di Abramo, NdR]. Lasciamo pure ai competenti teologi di stabilire in quanti e quali passi del Nuovo Testamento infernus significa inferno nel senso nostro odierno (luogo di pene eterne); per ciò che riguarda l’Antico Testamento infernus traduce l’ebraico she’ōl, che era la dimora dei morti, situata appunto nella parte bassa o inferiore del cosmo: giacché questo si concepiva diviso in tre parti discendenti, «caelestium, terrestrium et infernorum» (Filipp. 2,10). Si tratta dunque dell’Ade, o meglio dell’Oltretomba, ebraico. Stando così le cose, ognuno vede il pericolo serissimo da evitarsi a proposito di questo vocabolo: a noi basti l’averlo segnalato. Nei casi visti, ad ogni modo, si tratta di sostantivi di senso soltanto ambiguo. Vi sono poi altre parole e frasi trasportate di peso dal semitico in latino, e che quindi saranno state tradotte bene materialmente, ma devono ancora esser tradotte concettualmente. Aveva piena ragione sant’Agostino, quando diceva che spesso si traducono non solo singole parole, ma anche frasi che nell’uso della lingua latina assolutamente... non possono passare. In tali casi, dunque, abbiamo avanti a noi delle parole e frasi che sono materialmente latine, ma praticamente devono trattarsi come se fossero ancora in ebraico. E guai a non farlo! ne salterebbero fuori delle curiose. Anche qui ci limiteremo a qualche esempiuccio. Chi ha letto anche di corsa la Vulgata avrà notato la frequenza con cui occorre la parola cornu: si trovano corni quasi ad ogni pagina. È Dio che innalza il corno del suo devoto, che spezza il corno dell’empio, che innalza il corno di salvezza, che fa germogliare il corno di qualcuno (Ezechiele 29,21), che appare Egli stesso fra corni (Habacuc 3,4). Niente di strano, purché si ricorra - come consiglia sant’Agostino - alla lingua originale. È l’ebraico qeren, che significa corno, ma che è simbolo di fierezza, potenza, salvezza, posterità, e anche (nel passo di Habacuc) emblema di luce. Intanto nella Vulgata è sempre cornu, cornua. - Come pure è frequente di leggere che Dio scruta i reni e il cuore dell’uomo. È facile dire che cuore sta per affetti: ma i reni? E invece cuore non sta per affetti, ma per pensiero; reni al contrario sta per affetti: secondo gli Ebrei infatti il pensiero saliva su dal cuore, che ne era la sede generativa, mentre nei reni nascevano gli affetti. È dunque una frase rimasta prettamente ebraica, anche sotto la veste latina. - Si trova anche, non di rado, che Dio fece una parola in mano di qualche profeta, oppure che parlò in mano di lui, ecc. Sono molto sagaci le considerazioni fatte su queste frasi da alcuni scrittori ascetici: Dio parla, e il profeta opera secondo la parola di Dio, e allora soltanto la parola di Dio raggiunge pienamente il suo scopo, quando è accompagnata dalla cooperazione dell’uomo. Tuttavia, se si tratta di vera esegesi della Bibbia, dovremo preferire il consiglio di sant’Agostino, di ricorrere ai testi originali: e allora troveremo che in mano di traduce l’ebraico bėyadh, che in questi casi significa semplicemente per mezzo di, e perciò in sostanza per bocca di. Quanto a parola, è l’ebraico dabhar, che può significare parola, ma anche fatto, azione, opera, e quindi non si tratta sempre di discorsi di Dio, ma anche di opere. Questi sono brevi ed avari saggi. Si moltiplichino a centinaia, e si avrà qualche idea della necessità di quella preparazione filologica che, per procedere alla lettura della «lettera di Dio», era tanto richiesta da un Girolamo e un Agostino.
ATTENZIONE: L’Autore - Abate Giuseppe Ricciotti - non sta affatto incentivando il metodo storico-critico tipico dei modernisti. Tutto sarà chiarissimo leggendo, settimana dopo settimana, le pagine del suo libro, qui riportate per episodi. Abbiamo ritenuto opportuno precisarlo! (ndR)
«LINGUA ALTERA LOQUETUR AD POPULUM ISTUM», parte 2. Da Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. SS n° 12, p. 5