Anche qui ispiratevi alla pratica legittima ed approvata nella Chiesa stessa. - Prendete, per un solo esempio, il Billot (non so se fra i teologi dei nostri tempi ve ne sia uno, ufficialmente e ufficiosamente, più autorevole di lui). Egli, volendo dimostra- che l’Eucaristia è un vero sacrificio, argomenta dalle forme verbali impiegate nei testi originali greci dei Vangeli al racconto dell’ ultima cena; poi, contro questo suo modo d’ argomentare, si fa la seguente obiezione: La Vulgata [in tal caso] sarebbe sbagliata, e proprio in un testo eminentemente dogmatico, [ciò che va] contro alla definizione Tridentina. La sua risposta a tale obiezione fa proprio al caso vostro, egregio contradittore, e io vi esorto a leggerla tutta affinché sgomberiate la vostra pusillanimità, se non l’imperizia; qui mi limito solo a raccomandare alla vostra attenzione la seguente conclusione di quella risposta (che ha tanto più valore, in quanto è apparso recentemente anche a cattolici che l’attività scientifica del Billot soffrisse di una «grave lacuna», quella della «trattazione positiva» e della «ricerca storica e filologica»; La Scuola Cattolica, gennaio 1932, p. 64): Perciò è lecito, talvolta anzi necessario, per impadronirsi del senso pieno della Scrittura, servirsi di tutti gli argomenti opportuni, fra i quali si ritiene importantissimo il confronto della traduzione con l’originale, soprattutto quando sia certo che gli originali si sono conservati integralmente e senza guasti. Ricapitoliamo. Per sapere ciò che ha scritto a me Dio, io prima di tutto voglio avere il testo genuino della «lettera di Dio»: né una parola di più, né una di meno. Qualunque parola mancante a questo testo, è una perdita; qualunque parola aggiuntavi - sia da un eretico, sia da un pio, esprima essa un errore, o esprima una verità - è una intrusione; qualunque sbaglio infiltratosi ivi - sia una svista di trascrizione del testo originale, sia un errore di traduzione - è una falsificazione della «lettera di Dio». Scendendo ora alla pratica: si sanno tutte queste cose? Si seguono di fatto queste misure di prudenza che la venerazione per la «lettera di Dio» esige imperiosamente? Si ha sempre la doverosa cura di non presentare come parola di Dio ciò che è, supponiamo, il rantolante «sbadiglio» di un antico amanuense? Dio è infinitamente buono: e poiché è anche infinitamente potente, sa estrarre - come dice sant’Agostino - la luce dalle tenebre, il bene dal male. Ricordo di aver ascoltato una conferenza ascetica in cui l’oratore istruiva i suoi ascoltatori ecclesiastici sul modo di recitare degnamente il breviario. Nel breviario, si sa, ci sono i Salmi, e fra i Salmi c’è anche il 67 (ebr. 68,) che nei verss. 13-14 ha il noto passo, Rex virtutum dilecti dilecti: et speciei domus dividere spolia. Si dormiatis inter medios cleros, pennae columbae deargentatae et posteriora dorsi eius in pallore auri. Il conferenziere citò questo passo, chiedendosi che cosa poteva fare, davanti a queste e somiglianti parole, chi voleva recitare bene il breviario; e concluse che il meglio era fare un atto di amor di Dio, elevandosi col cuore a Lui. Eccellente consiglio. È proprio il caso di Dio che estrae la luce dalle tenebre. Il conferenziere infatti, sinceramente umile, riteneva che in questo e somiglianti passi si facesse sentire più profondamente la misteriosità della parola divina, e quindi la debole mente umana non riuscisse a penetrarne l’arcano. Oh! molto meno, ottimo conferenziere! Si tratta di un passo già guastato dai copisti ebraici, e peggiorato poi dai traduttori; se quindi esso è oggi incomprensibile, ciò avviene, non perché sia la «lettera di Dio», ma precisamente perché non è più la «lettera di Dio», o almeno ne è un rudere senza senso. Ad ogni modo siamo perfettamente d’accordo sulla conclusione pratica: un passo molto guasto innalzi il nostro cuore a Dio, e la luce risplenderà di tra le tenebre. Di tal genere erano anche le considerazioni che faceva uno scrittore ascetico sull’ altro noto passo di I Samuele [Re], 13,I: Filius unius anni erat Saul cum regnare coepisset, duobus autem annis regnavit super Israel. Che significava ciò? Come poteva avere un anno di età Saul quando fu eletto re, se a quel tempo era un pezzo di giovanottone alto dalla spalla in su più di tutto il popolo ed era un valoroso combattente? Come poté egli regnare due anni se, stando ad Atti 13,21, regnò quarant’anni? La spiegazione era fornita da considerazioni morali: il narratore biblico in questo computo teneva conto soltanto degli anni in cui Saul aveva servito di tutto cuore Dio, cioè per un anno prima della sua elezione e per due anni dopo; allorché però disobbedì a Samuele, dopo due anni di regno, il suo governo restò privo di ogni merito davanti a Dio e come nullo, nella stessa guisa che, fino a un anno prima della sua elezione, la sua vita dissipata e insulsa non meritava di essere computata. Ora, nessuno certo vorrà richiamare in dubbio queste considerazioni morali sul valore della vita e sul merito dell’obbedienza: quanto più, quindi, è da ammirarsi la bontà di Dio che ha provocato considerazioni tanto opportune, servendosi di due solenni svarioni di un copista ebraico? Infatti nell’originale ebraico al posto di unius manca la cifra, e al posto di duobus c’è una cifra sbagliata: errori che poi sono passati, con peggioramenti, nelle traduzioni antiche. Sottoscriviamo dunque alle conclusioni sia del conferenziere sia dello scrittore ascetico, ma guardiamoci bene da considerarle come frutto di esegesi biblica. È il caso, tanto frequente, in cui la tesi è molto migliore degli argomenti. Non ci fu una volta uno spirito bizzarro, che dimostrava buon numero dei canoni ascetici cristiani con passi dell’Iliade e dell’Odissea? E ci riusciva con un’abilità sorprendente! Eppure come i poemi omerici non sono punto la «lettera di Dio», così ne sono un lacrimevole rudere - nella forma in cui erano citati - i due passi biblici testé visti. Altrettanto, del resto, era successo già ai tempi di san Girolamo (torniamo sempre a lui, giacche la Chiesa l’ha chiamato il doctor maximus nello studio della Bibbia): ai suoi tempi circolavano i famosi «centoni» composti a guisa di mosaico con versi di Omero e di Virgilio, che abbastanza ingegnosamente raccontavano episodi evangelici o esponevano dogmi cristiani, e furono letti anche da san Girolamo: Quasi non legerimus Homerocentonas et Virgiliocentonas. Poteva sorprendere quella corrispondenza di pagano e di cristiano, e forse c’era qualche ingenuo lettore che nei poeti di Achille e di Enea scorgeva alcunché di arcano; ma san Girolamo non si lascia commuovere, e manda senz’altro all’aria tutti quei giuochi di parole: Puerilia sunt haec, et circulatorum ludo similia, roba da ragazzi e simile al giuoco dei prestigiatori (ad Paulin., epist. 53). Il gesto sbrigativo di san Girolamo, doctor maximus, autorizza a tenere lo stesso suo contegno di fronte ad acrobatiche costruzioni di parole che siano state basate su testi biblici guasti e falsati; la «lettera di Dio» merita troppo rispetto per tollerare che venga presentata come sua anche una sola parola che non è sua.
ATTENZIONE: L’Autore - Abate Giuseppe Ricciotti - non sta affatto incentivando il metodo storico-critico tipico dei modernisti. Tutto sarà chiarissimo leggendo, settimana dopo settimana, le pagine del suo libro, qui riportate per episodi. Abbiamo ritenuto opportuno precisarlo! (ndR)
«EPISTOLA DEI», parte 3. Da Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. SS n° 10, p. 5